Lynne Kutsukake

Donne caparbie del Giappone di Giulia Caminito © Letterate magazine

Tradurre la parola amore, ma anche tradurre la parola guerra, la parola pace, la parola povertà, miseria e dignità, quanto può essere difficile?
In questo romanzo d’esordio, l’autrice nippo canadese Lynne Kutsukake, ricostruisce gli anni drammatici del periodo post bellico, a partire dal 1946, di un Giappone sconfitto, occupato dalle forze americane, governato secondo nuove leggi, squassato nel suo tessuto sociale e che porta sulle spalle la colpa di Pearl Harbor, tanto che ogni giapponese emigrato negli Stati Uniti è stato da quel momento rimpatriato, recluso o messo al confino.
Gli americani a Tokyo portano soprattutto una cosa: la democrazia. Portano democrazia a un popolo tenuto in gabbia dal regime imperiale e lo fanno tanto che pure le pentole americane sono democratiche, le scarpe sono democratiche, le cartine geografiche sono democratiche. Infatti al centro del mondo c’è l’Europa, c’è l’America, e il Giappone sta al bordo, confinato sulla soglia, destinato a cadere oltre il foglio di carta, piccolo, bislungo, storto e pronto a scomparire.
Tokyo è a tutti gli effetti una città da dopo bomba, fatta a pezzi, misera, scomposta, dove gli americani gozzovigliano con le donne del posto senza mai sposarle, dove la via delle librerie è stata rasa al suolo, dove ognuno cerca i modi più assurdi per sopravvivere e dai vicoli spuntano bambini sdentati che vogliono riempirti di pizzichi e rubarti pacchetti di chewing gum. Una città soprattutto ormai governata più che dagli americani dal loro mito, lo sfarzoso, falso, mito della democrazia e del benessere, della società che si sta ricreando dopo la guerra, di quella che diventerà la cultura delle masse, della moda, delle rockstar e del sogno americano.

Per una barretta di cioccolato americano le ragazze sono disposte a farsi palpeggiare, i soldati americani sono acclamati in tutti i posti in cui vanno, possono permettersi qualsiasi goliardia, vagano per la città portando più rogne che speranze.
Su tutti, come un nume tutelare, vigila il nuovo governatore del Giappone, il Generale MacArthur, che viene considerato da molti giapponesi come un idolo.
Lo attendono quando entra nel palazzo dove lavora, gli scrivono lunghissime lettere sperando che a differenza dell’Imperatore lui risponderà e li aiuterà uno per uno, gli fanno gli auguri delle feste e del compleanno e con ossequiosa persistenza ne venerano il passaggio e la presenza.

Tra queste persone, tra i bambini trovati morti nei secchi, i vecchi a cui sono deceduti tutti i famigliari, le madri che si sono suicidate nei laghi, si muovono i protagonisti della storia.
Ognuno di loro – dalla bambina rimpatriata a forza dal Canada, alla ragazza rimasta bloccata in Giappone durante la guerra, dal giovane americano ma di famiglia giapponese che si è arruolato nell’esercito, all’insegnante di scuola che conosce l’inglese e traduce lettere per le donne disperate della periferia – vive questo terribile conflitto, che non è solo delle armi e della povertà, ma soprattutto si gioca sull’identità e il riconoscimento.
Chi è davvero giapponese e chi non lo è, chi è davvero americano e chi non lo è, per segnare dei confini e marcare il territorio genetico di ognuno, poterlo collocare, metterlo dalla parte giusta.

Un bambino nato da genitori giapponesi in Canada chi è? È americano? È giapponese? Se i giapponesi attaccano gli americani lui con chi si schiererà, per chi vorrà morire? Quando sarà in America tutti vedranno che è orientale, lo guarderanno con sospetto, quando sarà in oriente avrà perso i modi giusti, quelli giapponesi, tradizionali, vestirà all’occidentale quindi sarà più ricco, forse più ammirato, ma nel profondo biasimato, diverso, infedele.
Si scontrano così le tradizioni forti e a volte feroci della cultura giapponese con la testardaggine e l’orgoglio americano, la forza militare, la forza del numero e della coesione con cui l’America ormai da più di mezzo secolo si è mossa nel mondo.
Uno slogan quello della democrazia che arriva ai giorni d’oggi, una damnatio memorie quella di Pearl Harbor che ci ricorda le torri gemelle e la cultura mussulmana, una giustificazione alle azioni più efferate, una generalizzazione razziale o religiosa mossa su larga scala e senza quasi intralci, con cui tutti noi ancora conviviamo.

Le donne di questo romanzo sono caparbie prima di tutto, soffrono certo, si fanno sopraffare, ovviamente, ma sono molto dure, di pietra, sanno cosa vogliono e non si riescono ad arrendere, mettono a repentaglio anche la propria vita pur di non arrancare, e il loro obiettivo è soprattutto la famiglia, l’amore come amore di rapporti, come prendersi cura, ritrovarsi e salvarsi.
Gli uomini, di questo romanzo, raccontati da una donna, possono essere terribili, ma quando sono animati dal rispetto, dalla tenacia e dalla bontà d’animo sanno essere decisivi, riescono a opporsi a tutto.
Lynne Kutsukake scrive queste donne e questi uomini con una penna leggera e chiara, ne racconta le storie piene di dolore, ma anche di onore e dignità, di sopravvivenza e di ricerca.

A partire da dei materiali storici riesce a dare voce alle singole vite di uomini e donne che con grande fatica si stanno ritagliando uno spazio in questo nuovo mondo, quello che ha quasi superato la metà del Novecento e si sta aprendo a cambiamenti globali difficili da sostenere o arrestare.
La tenerezza, il buon senso e la civiltà risaltano su questo sfondo di distruzione e povertà, i gesti gentili, le opere giuste, l’attenzione verso gli altri, vengono descritti dall’autrice con poche ma perfette pennellate. È così che appare il soldato probabilmente omosessuale che legge con cura il libro che un altro soldato gli ha regalato, o la suora che trova una delle protagoniste in mezzo alla strada e la difende dalla polizia e le dà ospitalità, o il professore che rimane toccato dal dover tradurre una lettera a una donna incita per dirle che il suo fidanzato americano non tornerà, o il modo che hanno due bambine di dodici anni di stringersi le mani dopo essersi perdute nella città.
Le persone fanno la differenza in ogni circostanza, questo di certo il libro ci racconta.

Fa la differenza un uomo che decide di non approfittarsi di una ragazza disperata che vuole far mangiare la madre malata, fa differenza la ragazza che bussa a ogni porta in un quartiere malfamato per ritrovare la sorella di una bambina che ha appena conosciuto, fa differenza il modo in cui un neonato morto e avvolto in un pezzo di stoffa viene cullato invece che buttato tra i rifiuti, gli avanzi e il pattume.
Queste lucciole di umanità forse non cambiano le sorti del paese, perché gli americani vincono sempre, hanno già vinto, non solo le guerre ma anche i conflitti identitari (anche se il loro trionfo ovviamente ha lasciato dietro molti sconfitti e non solo tra le file “nemiche”), ma il loro brillare intermittente restituisce valore a quelle esperienze, dà cuore a situazioni talmente estreme da essere solo ossa spolpate.

Credo che questa possa essere una delle risposte alla domanda che attraversa il libro e cioè: Come deve vivere, un uomo? (o una donna, anzi per me soprattutto una donna).
Forse cercando di essere scintilla anche in situazioni perdute, illuminarsi anche dopo la resa e l’alzata crudele della bandiera bianca. Tradurre la parola amore in azioni, rimanere leale e giusto, resistere.

GIORGIO BARTOCCI, ALESSANDRO CALABRESE, ADRIANA PROGANÒ, ITALO ZUFFI
GIORGIO BARTOCCIALESSANDRO CALABRESEADRIANA PROGANÒITALO ZUFFI
2/2 - 2023
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